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LA FAMIGLIA BONGIORNO

Questa deduzione è giustificata dal fatto che nell'anno 1794, Don Pasquale Bongiorno, rappresentate primo del casato, effettuò più di 25 acquisti di case o di fondi rustici. Così il patrimonio familiare s’ingrandiva e la sudditanza del popolo lavoratore cresceva in proporzione. A conferma, nella dichiarazione del Sindaco dell’Università di Capistrano, rilasciata dopo il terremoto del 1783, in data 25-10-1787 da cui risulta che Don Pasquale Bongiorno era «il primo e miglior benestante che in detta terra esiste, il quale possiede più di docati cinquantamila di beni di fortuna esistentino in questa nostra terra oltre de beni che possiede in Girifalco, Petrizzi, a Cuiringa od altri luoghi ». (Cinquantamila ducati corrispondono a più di cinque miliardi di lire odierne).

Pur non essendo feudatari per investitura, ma tali per i vasti possedimenti terrieri accumulati, i rappresentanti della famiglia Bongiorno sono stati rispettati e temuti, sia a motivo del servizio, reso alla comunità nella loro qualità di pubblici amministratori del feudatario o del governo centrale, sia a motivo delle assisten­ze elargite sotto varie forme (viveri, danaro, indumenti, protezione), specie nei periodi di carestia o di epidemia non infrequenti nei secoli passati, ma a motivo, soprattutto, dell’accentramento del potere, che, allora, era appannaggio dei ricchi e delle classi privilegiate dei nobili e del clero. Era opinione popolare fino al principio del volgente secolo che Don Pietro Bongiorno fosse arrogante e prepotente. Si ritiene che tale opinione derivasse esclusivamente dalla seguente sconcertante vertenza, dato che, nella storia della famiglia, non è possibile trovare alcun altro aspetto negativo. L’Economo curato     Don Santarzieri   costruì, verso l’anno 1790, una casa a due piani di fronte al palazzo della famiglia Bongiorno, dopo averne da questa ottenuto l’autorizzazione. A costruzione quasi completata, Don Pietro Bongiorno si rese conto che la nuova casa gli limitava la luce e la visibilità e, perciò, non tenendo conto dell’autorizzazione già concessa e della non indifferente spesa sostenuta dal sacerdote, che aveva necessità di un’abitazione per sé e per la nipote, vedova con quattro bambini, ne ordinò perentoriamente la demolizione, pena ritorsioni molto gravi. La casa venne demolita ed il sacerdote, per timore di aggressioni da parte degli sgherri del signorotto, abbandonò la sede e si trasferì a Napoli.

Nell' insieme si può, tuttavia, ben dire che sono stati molto più numerosi i meriti di fronte ai demeriti, di cui i Bongiorno hanno lasciato retaggio, se non altro come esempio della loro grande fede religiosa e, perciò, del loro sincero attaccamento alla Chiesa cattolica. Peraltro due di essi scelgono il sacerdozio, l’Abate Don Camillo ed il Padre Onofrio, e due donne Alfonsina e Maria Carmela, entrano in un Ordine di suore. Verso l’anno 1920, non si sa in base a quale documento, Don Camillo Bongiorno si qualificò «Marchese» e così firmò negli atti pubblici di Sindaco e di Podestà, facendosi in tal modo appellare dai concittadini e dai suoi subordinati, i quali, fino a quella data, proprio in segno di distinzione e di ceto superiore, lo chiamavano «signorino» (signurinu), come marchesino o signorino, poi, veniva appellato l’unico suo figlio, a nome Francesco col quale il casato sì estinse. La verità è che tutti i predecessori di Don Camillo non avevano mai professato tale titolo nobiliare, pur sapendo di discendere da famiglia marchesale: essi si erano sempre qualificati discendenti dagli «antichi Patrizi della città di Palermo ».

Che si trattasse di famiglia di nobili origini non è stato mai messo in dubbio, ma quel che non ha convinto chi era dotato di raziocinio e di spirito critico è stato il fatto dell’apparizione estemporanea, nei documenti pubblici e nei rapporti sociali di un titolo in precedenza non utilizzato. Perciò era opinione diffu­sa che si trattasse di uso illecito di titolo nobiliare, ma nessuno osava denunciarne l’irregolarità, sia perché esisteva il dubbio che tra le corte di famiglia sarebbe stato rintracciato qualche attestato probatorio, ancorché dai predecessori del tutto ignorato, sia perché, allora, si viveva sotto il regime fascista, protettore delle classi dirigenti; e Don Camillo era in quegli anni primo cittadino di Capistrano e deteneva, così, il potere civile e politico. La convinzione, tuttavia, che si trattasse di famiglia nobiliare era comprovata dal testo dell’epigrafe sulla lastra di marmo, che copriva la botola della tomba gentilizia, esistente nella chiesa parrocchiale, seconda la quale la famiglia Bongiorno, dei marchesi di Esfaldo e Gangi, originaria di Mantova, si era trasferita prima a Napoli, poi a Palermo e successivamente a Girifalco, da dove si trasferì in Capistrano. Altro particolare che ci sembra meritevole di chiarificazione è il fatto che, verso il 1850, Cado Bongiorno, uno dei figli di Don Pasquale, firma gli atti pubblici modificando il proprio cognome in «Buongiorno », e così si qualificheranno il nipote Francesco, figlio di Pietro Maria, e tutti i suoi successori.

La famiglia Bongiorno era molto diffusa in Girifalco nel 1600 e nel 1700. Un rappresentante più rispettabile, appunto il magnifico Don Francesco Bongiorno, si trasferì a Capistrano nel 1686, a seguito del matrimonio contratto in questo Comune con la ma­gnifica Donna Eleonora del Bosco 2, la quale, probabilmente, era già una ricca ereditiera, se le sia stato possibile passare a nozze con un Patrizio della lontana terra di Girifalco, in tempi in cui i matrimoni venivano celebrati più per motivi di carattere economico e castale, che per mero sentimento. Don Francesco Bongiorno, una volta stabilitosi in Capistrano, acquistò il latifondo «Màconi » dai Padri Basiliani, secondo un’antica tradizione, e si costruì un palazzo in stile barocco, dotandolo di una villa, in cui tuttora trovansi i reperti di statue marmoree o di pietra arenaria, che in origine ne costituivano il famoso ornamento. I lavori del palazzo furono completati nell’anno 1707, come rilevansi dalla data scolpita sulla pietra di volta del portone d’ingresso. La villa fu fatta servire da acqua potabile, tratta dalle sorgenti di contrada « Morsilio » e portata a valle mediante tubi di terracotta, che alimentavano anche due pubbliche fontane, una nella parte alta del paese e l’altra, dotata di due canali, in piazza, di fronte alla chiesa-madre, architettonicamente di stile barocco con utilizzazione di pietra arenaria, in conformità dello stile e del materiale usati per la chiesa. Detto acquedotto forni l’acqua alla popolazione di Capistrano fino all’anno 1947, fino, cioè, a quando l’Amministrazione comunale non provvide alla costruzione del nuovo acquedotto con tubatura di ghisa, non soggetta agli inquinamenti in precedenza sofferti, a causa dei quali, negli anni 1930 e 1940, la presenza del tifo o del paratifo era diventata endemica, con enormi disagi e sofferenze a carico delle famiglie. L’acqua, che affluiva nella villa Bongiorno, non solo alimentava la fontana barocca di marmo e di pietra arenaria, ma defluiva, poi, in due vasche, una scoperta, nei pressi della medesima fontana, e l’altra, molto grande, coperta, più a valle, le quali costituivano la riserva del prezioso liquido, per innaffiare le piante (ornamentali e floreali) della villa, nonché la rimanente zona del giardino, coltivata ad agrumi ed ortaggi. Nonostante l’usura del tempo, i ricorrenti terremoti e l’abbandono degli uomini, esistono ancora le vestigia di quell’antica, settecentesca villa, testimone di una grande agiatezza e di un gusto estetico di bucolici, sereni tempi passati.

Il palazzo venne letteralmente demolito dal rovinoso sisma del 5 febbraio 1783, anzi dal successivo sommovimento ancor più catastrofico del 28 marzo, tanto è vero che Don Pietro Maria Bongiorno consegnava alla zia, Donna Teresa Bongiorno, sposata a Stilo con Don Guglielmo Bono, a chiusura e transazione di una lunga vertenza giudiziaria, alcuni fondi rustici e «metà del palazzo diruto sito in Capistrano », quella parte, cioè, che, poi, venne assegnata all’Ente morale Francesco Bongiorno, compresi «i casaleni sopra dei quali era sita l’antica galleria ». Quindi il palazzo, alla data del citato strumento notarile, era completamente «diruto », tanto è vero che la famiglia Bongiorno, come si rileva dagli atti notarili stipulati in quegli anni, andò ad abitare in altra casa palazziata, sita in contrada «Cona» di Capistrano, dove rimase fino alla ricostruzione del palazzo, realizzata negli anni dal 1830 al 1850. In base a questa informazione, quindi, siamo certi che a quella data i lavori della chiesa erano in corso e siamo certi, peraltro, che gli stessi ebbero svolgimento in quegli anni, sia perché Pietro Bongiorno completava il suo cenotafio nella chiesa nel 1770, sia perché sulla campana tuttora esistente e scritto «Don Pietro Bongiorno complevit A.D. 1768», e sia perché 1' altare maggiore veniva elevato alla Vergine della Montagna, il cui culto era stato introdotto nel 1757, e la stessa chiesa veniva benedetta il 20 gennaio 1760.

Don Pietro, dunque, a completamento della sua opera di patrono della nuova chiesa-madre, si fece costruire un cenotafio di marmo pregiato di Carrara, recante l’epigrafe in seguito trascritta, con sovrastante la sua figura a mezzo busto, in costume settecentesco, aggettante, rivolta con lo sguardo alla Madonna, materna protettrice. La parte sottostante il monumento, pure di marmo bianco, era incorniciata da riquadri di marmo policromo, simile a quello usato alla base e nei rialzi dell’altare maggiore, che l’incuria del tempo e la curiosità demolitrice dei ragazzi hanno tolto dal loro incavo e disperso. Al di sopra del busto di Don Pietro era stato collocato lo stemma marmoreo del casato, con sovrapposta la corona marchesale.

 Ultimo erede della famiglia Bongiorno

Come abbiamo detto, da Camillo e da Teresina Carnovale viene alla luce, in data 24-11-1911, Francesco comunemente chiamato «Don Ciccillo », «il Signorino » e, più tardi, dagli anni ‘20 in poi, « il Marchesino ». Completati gli studi elementari a Capistrano, viene immesso nel Convitto Filangieri di Monteleone, dove frequenta il ginnasio ma, all’inizio del liceo, si stanca e sospende gli studi, rientrando definitivamente in famiglia. Ormai diciottenne, si dedica all’amministrazione dei patrimonio, guidato ed aiutato dalla madre, molto perspicace ed attenta al riguardo, migliorando, in pochi anni, un’azienda agricola, che il disinteresse e l’abulia del padre, dopo il decesso del fratello Gian Giacomo, aveva quasi del tutto trascurato. Risale a quegli anni (gli anni della crisi economica mondiale e, quindi, anche italiana) 1929-30 e 31,  la vendita ad antiquari, venuti da fuori, di due quadri ad olio, ciascuno grande quanto una parete di stanza — il figliuol prodigo e il trasferimento in Egitto della sacra Famiglia — insieme con altre cose, arredi ed indumenti antichi, ivi compresa qualche pergamena o cartapecora, recante iscrizione di indubbio valore storico per la famiglia e per la comunità capistranese. Fu questo un danno culturale incalcolabile ed ormai irreparabile, non sapendo né potendo recuperare il materiale ceduto, probabilmente anche a prezzo irrisorio, data l’incompetenza storico-artistica dei proprietari, che se ne disfacevano.

Don Ciccillo negli anni dal 1931 al 1934, curò la riparazione ed il restauro del palazzo avito, rifacendone i solai ed i pavimenti, ricostruendo una cucina più grande e funzionale, adattando un ampio vano a salone, rifacendone il soffitto in legno di noce, decorato al centro con lo stemma del casato, facendo intonacare e colorare la facciata esterna e sistemando, con piante di alto fusto sempreverdi e con piante floreali, in modo più decoroso ed accogliente, la villa annessa allo stesso palazzo. Negli anni 1935 e 1936 ricoprì la carica di Commissario prefettizio del Comune rivelandosi dinamico, di intelligenza lucida e dotato di buone capacità di governo. Così operava sia nel campo politico-amministrativo, in funzione di guida e di consigliere del popolo minuto, sia in quello imprenditoriale-agrario con giovanile entusiasmo e con composta serietà, seguendo l’evoluzione dei tempi, tanto è vero che nel 1930 acquistò la prima radio presente in paese, alimentata a batteria, poiché il Comune non era ancora servito dall’energia elettrica, e, nel 1934, l’automobile (la prima "Balilla" conosciuta dai cittadini). Ma, mentre era nel fulgore della sua gioventù, venne colpito da male incurabile, si disse leucemia, ma forse linfogranuloma maligno che lo condusse, in pochi mesi di malattia, a morte, in data 16 agosto 1944, nella villa di S. Elia di proprietà Massara, già di proprietà dei suoi avi, dove era stato trasferito per cambiamento d’aria, a motivo della persistente febbre, forse scambiata come sintomo di una resistente brucellosi. Così, con la sua immatura scomparsa all’età di 33 anni, nel rimpianto generale della popolazione capistranese, si estinse la nobile famiglia Bongiorno del ramo stabilitosi in Capistrano, intorno alla quale aveva ruotato, in rapporto di sottomissione, di devozione, di collaborazione e di simpatia, a seconda dei tempi storici attraversati, la vita socio-economico-politica del nostro paese per circa tre secoli.

Invero, «Don Ciccillo» Bongiorno aveva affidato, mediante testamento olografo, suggeritogli dal medico curante, Dr. Vincenzo Bilotta, la continuazione del suo nome e della sua memoria ad un opera di beneficenza, cui aveva lasciato il patrimonio, pervenutogli per successione della madre (il padre gli sopravviveva), per l’istituzione di un asilo infantile oppure di un ospizio. Ma l’asilo infantile «Francesco Bongiorno », eretto in Ente morale, svolse la sua attività educativa per circa trent’anni, fino a quando, pressappoco il 1976, per mancanza di alunni, assorbiti sia dalla scuola materna statale, istituita nel gennaio 1969, sia dall’asilo infantile parrocchiale, tenuto dalle suore di S. Anna, dovette sospendere la sua attività. Né, peraltro, è stato possibile cambiare le finalità dell’Ente, sostituendo l’asilo infantile con l’ospizio, secondo l’alternativa, lasciata aperta dal testatore, a motivo della mancanza di aspiranti al ricovero, essendo vivo negli abitanti di Capistrano, il senso della famiglia e grande la consapevolezza della responsabilità dei figli nei riguardi del loro obbligo di assistenza dei vecchi o inabili genitori, ragione per cui gli anziani non sanno privarsi dell’affetto parentale e preferiscono vivere a carico dei figli, ancorché, forse, in molti casi, in modo più disagiato dell’ospitalità che loro sarebbe stata offerta dall’Ente morale «Francesco Bongiorno». Prova di ciò è data dall’esperienza negativa, fatta, negli anni ‘70, dall’Amministrazione comunale, la quale aveva avuto la premura di istituire una «Casa di riposo» per anziani, utilizzando allo scopo parte dell’accogliente nuovo edificio, costruito per la scuola materna statale, senza ottenere le iscrizioni necessarie, per far sopravvivere la benemerita opera.

Dal 1945, aveva inizio una nuova storia del paese, non più intessuta di rapporti di sudditanza feudale o patriarcale, in funzione della presenza dei Bongiorno, ma affidata alla intelligenza, all’operosità, all’intraprendenza delle leve popolari emergenti, ormai agevolate dalla innata democrazia e dal nuovo ordinamento statuale repubblicano, sorto dalle ceneri dell’immane guerra perduta e dalla positiva ventata di modernismo che alla stessa ha fatto seguito. A testimoniare, oggi, la presenza e la funzione, nel passato, della famiglia Bongiorno rimangono, in Capistrano, il palazzo col suo bel portale settecentesco, il «vaglio» dello stesso con incorniciature di pietra arenaria, scolpita secondo lo stile barocco, i balconi ricurvi, per accogliere le gonne a crinolina delle signore di due secoli fa, lo stemma gentilizio, scolpito in pietra sul frontespizio della chiesa ed in legno al soffitto del salone del palazzo, nonché il cenotafio a Pietro Bongiorno nella chiesa parrocchiale e una modesta tomba di muratura nel cimitero con lapide, iscrizione commemorativa e fotografie di «Don Ciccillo» e di sua madre.

Giovanni Manfrida, "La famiglia Bongiorno", Capistrano Ieri ed Oggi. (Soveria Mannelli: Calabria Letteraria Editrice, 1987) 128-148.

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