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Nicastrello,
un Piccolo Borgo tra Passato e Presente
Borghi
abbandonati. Nuove rovine. Una parte consistente del tesoro contenuto in
quello scrigno che è la Calabria. Tesoro fatto di storie, di paesi
cancellati dalla geografia, di episodi importanti per la ricostruzione
dell’identità delle popolazioni calabresi. E’ il tratto distintivo di
una “terra in fuga”, come la definisce l’antropologo e scrittore Vito
Teti che, in tal senso, fornisce il contributo più completo con il
prezioso volume “Il senso dei luoghi” (Donzelli 2004) nel quale,
attraverso un’attenta disamina, ricostruisce la storia dei borghi
abbandonati di tutta la Calabria. Tra i diversi insegnamenti che si
possono trarre da quest’opera, uno fa particolarmente riflettere: «Anche
per gli abbandoni, evidentemente, esiste una gerarchia». Infatti, se in
Calabria esistono borghi abbandonati più “celebri”, come Pentedattilo,
Brancaleone o Cerenzia, ve ne sono altri che meriterebbero pari
attenzione e merito. E’ il caso del borgo abbandonato di Nicastrello,
nel territorio di Capistrano.
Nicastrello
o Casalìadju, come viene chiamato dagli abitanti dei vicini paesi di
Capistrano, San Nicola da Crissa e Monterosso, non è indicato in nessun
inventario di borghi abbandonati. Una chiesetta, restaurata e ancora
adibita al culto, immersa tra alberi da frutta, alcuni ruderi in pietra
e breste, un impasto di creta e paglia cotte al sole, squarciati e
inghiottiti dai rovi, di quelle che furono piccole abitazioni formate da
due stanze in cui, un tempo, riuscivano a viverci anche dieci persone
assieme ai loro animali, le loro poche cose. Così si presenta, oggi,
questo antico Casale situato nel bosco “Fellà”, nel quale molti resti di
probabile origine basiliana, attestano le prime forme di insediamento a
partire dal X–XI secolo. L’origine del borgo è, tuttavia, più recente.
In un documento del 1650 si legge che all’interno del grande bosco
«Fellà vi è suo Casale nominato Nicastrello, che deriva il suo nome dal
Rationale Giovanne Antonio Nicastro…». Il Casale, iniziò a popolarsi in
seguito all’impiego di manodopera agricola e boschiva, espandendosi tra
Settecento e Ottocento, e divenendo, in seguito, comune autonomo. Nel
1868 divenne frazione di Capistrano. Da qui in poi, è la tradizione
orale a fare da testimone e ad attestare la presenza, a Nicastrello, di
una farmacia; una scuola; alcune botteghe di generi alimentari; tre cave
di pietra calcarea; due calcare per la produzione di calce da
costruzione; due frantoi e due mulini. Negli anni ’60 iniziò lo
spopolamento, a cui seguì l’abbandono totale. La gente cominciò ad
emigrare verso il Nord Italia oppure all’estero. Anche questo è un pezzo
di quella “terra in fuga” delineata da Vito Teti.
Ma se i
borghi abbandonati sono la testimonianza diretta, il simbolo della fine
di una vita che fu, è lo studioso stesso a individuare quegli elementi
di valenza esorcistica contro la morte, riponendo nella memoria dei
luoghi la chiave della sopravvivenza. I luoghi abbandonati non muoiono
mai, ma si solidificano nella memoria di coloro che li hanno abitati, di
coloro che li hanno frequentati, dei loro discendenti, fino a costituire
un fondamentale elemento di identità. Ancora oggi, infatti, molti borghi
abbandonati sono luogo di celebrazioni religiose, di culto e, dunque, di
ritorno. Il ricordo di Nicastrello rivive nelle feste di San Filippo, il
26 maggio, e di Sant’Elena, o Santa Lena, come viene denominata in
dialetto, il 18 agosto. Il culto di Sant’Elena nacque con la costruzione
del villaggio; quello di San Filippo Neri venne introdotto, con ogni
probabilità, verso la fine del Settecento. La piccola chiesa di
Nicastrello ospita al suo interno le pregevoli statue lignee
ottocentesche, di probabile scuola serrese, raffiguranti i due santi.
Queste celebrazioni religiose sono occasione di ritorno per i pochi,
superstiti abitanti, per i loro discendenti, per la gente proveniente da
Capistrano, San Nicola, Monterosso, e per i numerosi emigrati originari
di questi paesi. Nel giorno del ricongiungimento, attraverso itinerari
che legano al passato, il vecchio borgo di Nicastrello perde il suo
silenzio e riacquista la voce. «Le feste nei paesi abbandonati – spiega
Teti – costituiscono un grande esorcismo contro la morte, affermano un
nuovo bisogno di vita». Ecco, dunque, come quel senso di morte trasmesso
dai ruderi, attraverso una potente sacralità, si tramuta in rinascita.
E, ancora una volta, emerge la lezione dell’antropologo, il quale
fornisce una perfetta definizione di questo processo di vita che si
alimenta di memoria, di questo sentimento che rimanda alla rinascita e
che si identifica appieno in un profondo “sentimento dei luoghi”.
ANDREA FERA
Calabria
Ora, giovedi 12 luglio 2007
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